“Tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri” (Orwell)
In termini sociali ‘uguale’ sta per ‘medesimo’, ‘simile’, ma l’etimologia latina rimanda al termine aequus, con un forte richiamo al concetto di ‘equità e imparzialità per gli appartenenti alla stessa classe di equivalenza’. Si stabilisce così un’uguaglianza in base all’appartenenza ed una equità per chi fa parte del gruppo.
Quale criterio definisce l’equità e sancisce l’eguaglianza tra esseri umani? E chi decide chi è degno di essere considerato uomo e lascia ai margini chi è troppo dissimile? Oggi sono i confini politici e i passaporti che definiscono chi è fuori e dentro, con rituali di entrata, uscita, accesso (ovvero eguaglianza) o esclusione.
Il modello dominante è quello della sovranità statale basata sul principio di territorialità che delimita funzioni, identità e diritti al suo interno.
Quando circa 75 milioni di persone (come calcolato dalle Nazioni Unite nel periodo dal 1965 al 2000) attraversano confini per stabilirsi in paesi diversi da quelli di origine, chi determina dove e come siano tutelati i diritti umani? In una società mobile, con flussi migratori costanti, va riconosciuta l’uguaglianza fra chi convive e condivide la realtà sociale nel presente a prescindere dall’origine etnico-nazionale o è il passaporto, la nazionalità di provenienza a stabilire l’inclusione nel gruppo di ‘uguali’?
Sfortunatamente i principi che classificano gli “uguali” tra diverse nazionalità, o tra nord e sud del mondo, si estendono in maniera trasversale anche all’interno di una stessa nazione. Infatti, non esistono pari opportunità di genere, la povertà aumenta e la forbice tra ricchi e poveri è sempre più larga.
Come può essere garantito il principio di uguaglianza quando in Italia (Rapporto Oxfam) il 5% più ricco possiede il 40% della ricchezza nazionale netta?